Circondata da immagini di successo, da modelli irraggiungibili di bellezza, bravura e intelligenza, tutto sembra dover essere impeccabile: il lavoro, il corpo, la vita sociale.
La ricerca ossessiva della perfezione è una trappola che mi immobilizza, una cosa “morta”: nulla più da migliorare, nessun margine di nuovi sviluppi.
E dove non c’è crescita, non c’è vita.
Gli errori sono la linfa dell’esperienza. Ogni volta che sbaglio, apprendo qualcosa di nuovo su me stessa e sul mondo. Un bambino che impara a camminare cade decine di volte, ma ogni caduta lo avvicina un po’ di più all’equilibrio: se temesse di sbagliare, non farebbe mai il primo passo.
Quando nella vita rifiuto il rischio di fallire, rinuncio anche alla possibilità di evolvere.
La perfezione dà un’illusoria, ma sterile, idea di sicurezza: credo di aver raggiunto la forma ideale e non mi metto più in discussione, non ascolto più, non sperimento. Come un artista che smette di dipingere per paura di rovinare la tela e conserva l’immagine di un capolavoro mai nato.
Accetto di sbagliare continuo a creare, a scoprire, a reinventarmi.
L’errore non è un difetto, ma una deviazione fertile: apre nuove strade e costringe la mente a pensare in modo diverso.
Sbagliare significa vivere. Mi permetto di fallire e sono libera, perché non ho paura del giudizio e so che ogni errore è una lezione. La perfezione mi incatena: mi costringe a mantenere un’immagine immobile e a fingere di non avere debolezze.
Sono umana proprio quando sono imperfetta, coi miei tentativi e con le mie contraddizioni che mi rendono autentica.
La perfezione non è un traguardo, ma un punto morto. Oso sbagliare e continuo a camminare, a imparare, a crescere. Gli errori non sono ostacoli, ma gradini.
E’ perfetto solo l’accettare di essere imperfetta, perché così resto viva, curiosa e in movimento.

