Vivo un’epoca che celebra la velocità, la produttività, la costante crescita. L’imperativo sembra essere uno solo: non fermarsi mai. Profonda e controcorrente è, invece, l’idea che riposare, rallentare e recuperare siano atti fondamentali del cammino. Non una battuta d’arresto, ma un modo, spesso più consapevole, di avanzare.

L’allenamento, nel senso fisico ma anche simbolico, è spesso inteso come unico momento di crescita: nel fare, nel correre, nel “non perdere tempo” si misura la riuscita di una persona. I migliori atleti sanno invece che, senza il recupero, il muscolo non si rafforza: si logora. Il riposo non è tempo perso: è tempo che serve. Allo stesso modo, nella vita quotidiana, concedersi momenti di pausa è un atto di cura e di lucidità e solo fermandomi comprendo davvero dove sto andando.

Rallentare non significa essere deboli, ma avere la forza di opporsi al flusso continuo di stimoli e di richieste. Significa sapere dire “NO”.  Significa dare spazio all’ascolto, alla riflessione e alla qualità delle esperienze, invece che alla loro quantità. Nelle pause spesso emergono le idee migliori, sedimentano le emozioni e ritrovo una direzione.

Stare ferma non equivale a restare immobile: esisto, scelgo, maturo dentro. Il silenzio vale più del rumore, la lentezza più della corsa. Mi fermo e vedo con maggiore chiarezza ciò che prima mi sfugge.

Recuperare non è solo un atto fisiologico, è anche psicologico, emotivo e spirituale: ricostruisco le energie e ritrovo senso e motivazione. Recuperare è un atto di saggezza.

Fermarmi non è rinunciare, ma avanzare in maniera diversa: tranquilla, interiore, ma non meno potente.

Rallento, mi ritrovo, rifletto per una vita piena… non solo di cose da fare, ma di sensibilità e coscienza.

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